La fabbrica dei mondi. Geografie immaginate e Territà
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Quando una civiltà muore, di solito lo fa lentamente, accumulando sintomi invisibili, assistendo impotente o indifferente all'aggressione dei sogni e delle cosmologie. Quando il crollo è avvenuto, l'unica cosa che rimane a chi sopravvive, a parte frammenti del mondo di prima, è la Terra sotto i piedi. Né madre né matrigna, né massa inerte né Gaia senziente, la Terra è come un grande animale del Tempo di cui restano solo le ossa. L'unico modo per de-estinguerla è re-immaginarla. Questo legame mentale ed erotico con il corpo terrestre è la Territà, un termine che respinge ogni definizione ma che attira delle zone di senso: da un lato "Collasso", "Antropocene", "Apocalisse", dall'altro "Rito", "Mito", "Sacro". Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, John Ronald Reuel Tolkien, Cormac McCarthy, Paul Shepard, William Vollmann, Laura Pugno, Laura Pariani e alcuni altri ci dicono qualcosa di irrinunciabile su ciascuna di queste zone, sul bisogno di fabbricare mondi immaginati per capire i mutamenti del nostro. Come scout in avanscoperta nella "wilderness" dei tempi, ci portano frammenti di mappa e, nel grande gioco di cartografia dell'immaginario terrestre da cui dipende la nostra salvezza, fanno qualcosa di contemporaneo e al tempo stesso ancestrale. Perché il punto è questo: nei grandi passaggi d'epoca, nei momenti di crisi e di collasso, la nostra specie, antropologicamente, poeticamente, ritorna ancora e sempre alla Terra, al pensare e immaginare la Terra come atto di sopravvivenza e rifondazione.
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